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Mojito

Per parlare del Mojito dobbiamo partire dal fondo, ossia dalla preparazione, argomento solitamente trattato alla fine di ogni articolo. Questo perché nessun cocktail ha diviso così tanto la comunità dei bartender, schierati fra puristi e pragmatici. I primi, invero rari nei primi anni Duemila, sostenevano che la ricetta originale fosse un Collins, un cocktail mescolato nel bicchiere con tutti gli ingredienti con succo di lime spremuto e zucchero di canna bianco. E per supportare questa tesi portavano ad esempio alcuni testi sacri, italiani e non, dove era chiaro che il Mojito non avesse mai avuto il lime pestato. A questa narrazione aggiungo la menta, che è la principale vittima del trattamento, liberando sentori amari e di erba falciata. I secondi partivano dal presupposto che il cocktail gli era stato insegnato in quel modo da un guru del bancone e che al cliente piaceva così. Tanto è che in quel periodo fiorì anche la moda del Cuba Pestato, ovvero un Cuba Libre dove galleggiavano fra i cubetti di ghiaccio tristi spicchi di lime maltrattati con il muddler. A questo si aggiunga che entrambi gli schieramenti, spesso in nome di accordi o posizionamenti di mercato, non utilizzavano un rum cubano per la sua preparazione, tradendo di fatto, l’origine indiscutibile del cocktail. Su questo aspetto infatti nessuno discute, poiché l’isola caraibica (se non i natali) diede sicuramente il battesimo della rinomanza a questo drink. Oltre al rum, un’altra licenza “poetica” fu la menta, che andrebbe semplicemente sprimacciata affinché liberi il suo olio essenziale contenuto soprattutto nel gambo. Ma qui nei primi anni Duemila si poteva fare ben poca cosa, non essendo reperibile la yerba buena. Nei bar infatti si utilizzava la menta mediorientale reperita nei mercati rionali da macellerie o ambulanti arabi, o quella coltivata in vaso, con grande cura, dai titolari dei bar. Il problema era la fragranza, poiché il biotipo cubano ha poco a che vedere con l’europeo (infatti non appartengono alla medesima specie botanica), sia essa spiccata che piperita, assomigliando al gusto più alla santoreggia.

Oggi, dopo un decennio di discussioni, sembra che la versione non pestata, e quindi originale, abbia preso giustamente il sopravvento. E ci sono decine di bartender della seconda “fazione” che negano di aver mai fatto anche un solo Mojito pestato. Lo scrivente liquidò circa venti anni fa la questione mettendo in lista un Mojito Originale Cubano e un Mojito Torinese, lasciando che i clienti potessero scegliere e soprattutto domandarsi il motivo della presenza di due ricette. Una volta provate entrambe, erano liberi di scegliere. E la scelta spesso ricadeva sul primo per un indubbio miglioramento al gusto poiché il solo succo di lime, invece che la buccia contusa dell’agrume, non liberava dopo qualche minuto i classici gusti amari tipici dell’albedo. Prima di chiudere la questione ricetta, sarebbe molto interessante capire dove nacque l’errore.

Venendo alla storia invece, il cocktail nacque, nella sua versione attuale, a Cuba negli anni Trenta, ma fu portato al successo da Hemingway nei primi anni Cinquanta, durante il suo soggiorno nell’isola per la stesura del suo capolavoro “Il vecchio e il mare”. Hemingway, sempre secondo la tradizione, lo beveva alla Bodeguita del Medio, preparato da Angelo Martinez, vera icona della mixologist cubana. Nel bar capeggia ancora una lettera autografa di Hemingway con il famoso motto che tutti conosciamo, dove si citano Mojito e Daiquiri. Curiosamente però lo scrittore non menzionò mai il bar nei suoi scritti, cosa che invece fece con l’Harry’s Bar di Venezia in “Addio alle armi”. 

Secondo la tradizione più accreditata, il barman della Bodeguita riprese l’antica ricetta di una bevanda del Seicento preparata da Sir Francis Drake, il corsaro di Sua Maestà Britannica, pozione che ebbe successo e fama in tutti i Caraibi, e assunse il nome di Draque, in onore del suo creatore. Secondo un’altra versione dei fatti, il corsaro di Sua Maestà non fu il diretto inventore della ricetta ma la causa della sua invenzione. Drake, nonostante l’ordine di prendere la capitale dell’isola, compreso che sarebbe stato un inutile bagno di sangue, decise di togliere il disturbo dopo poche iniziali schermaglie. La popolazione, grata per questa decisione, decise di dedicargli una miscela con il suo nome. Questa bevanda rimase a lungo in auge, soprattutto come medicinale, cosa successa anche per Sazerac o altri cocktail a base di erbe, limone e zucchero. Qualunque sia la storia, il nome venne cambiato in Mojito, dall’etimologia piuttosto contrastata. Mojo è una salsa per marinate e intingoli a base d’aglio della cucina cubana, che sembra avere poca attinenza con le doti aromatiche del cocktail; mentre mojadito in spagnolo significa umido, parola poco poetica per un drink di siffatta bontà. L’ultima ipotesi è la più verosimile e indica in mojo la parola vodoo per indicare incantesimo, quindi Mojito starebbe a indicare un piccolo incantesimo, che rende assolutamente onore alla fine armonia di questo cocktail.

Ripercorriamo ora le origini della ricetta codificata e degli ingredienti. Quando eravamo ancora lontani dal successo del cocktail, nel 1987, uscì “1000 cocktails” di Marcialis, uno dei grandi barman della scena italiana. Su questo testo si parla di lime spremuto. Nel 2001 uscì il libro ufficiale dell’AIBES, il “Dizionario dei cocktails”, ed anche qui il Mojito è ancora un Collins. Nel 2008, quando il cocktail era ufficialmente in auge, venne pubblicato il “Manuale del barman” di Umberto Caselli, ed anche qui si parlava di succo con l’alternativa di quello di limone dettata forse da questioni economiche. La difficoltà nel reperire il lime con il successo di due cocktail con questo ingrediente, portò ad una lievitazione dei costi, e probabilmente indusse l’autore a proporre questa opzione, di fatto applicata in molti bar dove si mescolavano nei premix i due agrumi. Una ragione anche organolettica, infatti i lime arrivavano spesso non maturi, raccolti in anticipo per soddisfare il mercato, ed erano poveri di succo e di sapore. Il mescolare qualche limone di qualità italiano non poteva che giovare.

Rimane quindi fondata la teoria che questo cambio di lavorazione, dal mescolato al pestato, fosse stata introdotta dai barman sui loro punti vendita. Un errore quindi venuto dalla strada, probabilmente figlio del successo di un vero pestato, la Caipirinha. Il successo del Mojito fu successivo, e per un certo periodo parallelo, a quello del cocktail brasiliano, pertanto è facile pensare che vedendo una ricetta simile nelle sue basi, lime e zucchero, il barman abbia pensato che anche in quel caso andasse lavorato con il pestello. Anche l’uso del ghiaccio a scaglie per entrambi invece che a cubi (richiesto dal Collins) supporterebbe tale ipotesi così come la scelta del brown sugar anche quando era disponibile la versione, sempre di canna, bianco.

 

 

 

 

 

 

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