La prima definizione di Cocktail viene da un giornale statunitense di Houston nel 1806: il giornalista cerca di spiegare ai lettori cosa è un cocktail e lo definisce un “liquore” fatto con distillati, acqua, bitter e zucchero in grado di corroborare il corpo ed alleviare la testa…
Nel 1860 abbiamo una delle prime pubblicazioni riguardo i cocktail, il “Bartender Manual” di Harry Johnson, all’interno del quale sono codificati molti drink a base vermouth e gin, fra cui spicca la ricetta del Martinez.
Nel 1862 abbiamo la prima guida ” Bartender’s Guide” scritta dal professore e maestro di tutti i baristi, Jerry Thomas, al cui interno troviamo 10 cocktail codificati. La vera innovazione discriminante che lo distingueva dai beveroni a base frutta e soda dell’epoca, era l’utilizzo dei bitter, sia Angostura che Peychaud, ed infusioni a base di assenzio.
La guida verrà più volte aggiornata dal Professore, includendo mano a mano, i must dell’epoca come il Tom Collin’s nel 1876.
Altra guida importante del periodo è la “Cocktail Boothby American Bartender” del 1891, un libretto con ben 361 ricette codificate, con molti trucchi del mestiere e alcune malizie per la preparazione di ottimi drink.
I cocktail di questo periodo sono essenzialmente composti con pochi ingredienti, aromatizzanti a base di erbe, vermouth o bitter, sia dolci che amari, come già detto, o sono dei Sour, allungati o meno con acqua di soda, come i Fizz o i Collins, il cui obiettivo principale era di stemperare il carattere alcolico irruento e la poca finezza organolettica dei distillati dell’epoca.
Il “sour mix”, di semplice esecuzione fatto con zucchero e limone, fu alla base di moltissimi cocktail dell’epoca, in quanto composto con ingredienti di facile reperibilità e dal costo minimo. Era in grado di caratterizzare un mix con un distillato, con gli elementi alla base della piacevolezza del gusto, che ritroviamo anche nell’ambito enologico: la dolcezza e l’acidità (si pensi ai Moscati dolci, freschi di facile beva, per via della gradevole acidità).
Jerry Thomas pur non essendo un creatore di cocktail, viene riconosciuto come il fondatore della moderna mixologist, in quanto codifica e spettacolarizza il mestiere del barman eseguendo con gesti veloci, giostrando bottiglie speciali di sua invenzione, shaker e stirrer decorati con gioielli luccicanti, tutti i cocktail conosciuti, come Sour e Fix, creando per la prima volta una forte attenzionalità del cliente sulla gestualità del barman.
La sua popolarità era trasversale su tutti le classi sociali e, grazie ad essa, arrivò a guadagnare cifre importanti per l’epoca, di molto superiori agli stipendi di politici e banchieri. Fu uno il primo barman a potersi vantare di aver lavorato nei bar più lussuosi d’America, anche se New York rimarrà per lui la città nella quale ebbe le maggiori soddisfazioni.
Il successo del cocktail è inarrestabile ed inevitabilmente arriva il primo “Cocktail Party ” ufficiale che viene dato nel 1917 a St . Luois, nel Missouri, organizzato dalla sig.ra Welsh, contando ben 50 invitati.
La moda dei cocktail party dilaga presto ovunque, arrivando anche in Italia, ben descritta da Tommaso Marinetti in un brano della “Cucina Futurista”, dove giudica deprecabile la diffusione di tale anglosassone usanza, reclamando a gran voce il ritorno alle radici più genuine dell’italico vino.
Le fasi storiche per meglio capire l'evoluzione del bere miscelato
Per meglio comprendere le ricette e l’evoluzione di esse, sono necessari alcuni parametri storici, la Storia dell’Uomo infatti si intreccia fittamente con quella del bere miscelato influenzandone usi e costumi, a seconda del periodo storico.
Fra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, accaddero due avvenimenti che modificarono il modo di bere dell’epoca, il primo, la fillossera, ebbe conseguenze nel breve, il secondo, la nascita della refrigerazione industriale, le ebbe per sempre. La terza, la soda, prodotta su scala industriale, modificò il nostro modo di bere e di interpretare l’acqua. Nel 1893 fa la sua comparsa la fillossera, un afide proveniente dall’America che devasta i vigneti di tutta Europa, decimando il patrimonio ampelografico di moltissime nazioni, decretando una graduale scomparsa dalle liste dei cocktail con base Cognac e Brandy, sostituiti con i distillati tipici degli stati che avevano una tradizione cerealicola e frutticola.
Il Sazerac in America verrà modificato con il Bourbon, il Sidecar vedrà la declinazione con il gin (White Lady), così come lo Stinger verrà proposto solo sulle navi da crociera ad uso e consumo di una clientela ricca e sofisticata. Molti drink a base vermouth divennero esclusivi e sinonimo di prestigio, serviti solo nei bar di classe superiore.
I drink aperitivi di fine 800, che vedevano dosi di vermouth pari al distillato o comunque intorno ai 4/10 del totale, diventarono più secchi ad inizio 900, forse per un’evoluzione del gusto o forse per risparmiare sul prezioso vino fortificato, lanciando la moda degli aperitivi secchi che avrà nel Martini il suo capostipite.
Il Calvados il distillato di mele della Normandia, fino ad allora praticamente sconosciuto alla massa, visse il suo periodo di massimo splendore, consumato liscio e miscelato in alcuni interessanti drink fra cui l’Angel Face, il Bentley e il Fallen Leaves.
Nel 1850, il Dr. John Gorrie, (foto a colori a sx) dimostra che si può produrre ghiaccio anche in modo “artificiale”, prima di allora infatti, l’uomo dipendeva dalla natura per la conservazione dei suoi alimenti. Un inverno particolarmente ricco di neve permetteva di farne una buona scorta, ghiacciarla in appositi locali della casa, ed utilizzarla per refrigerare gli alimenti.
Questa pratica era però era solo possibile in determinati luoghi della terra, pertanto l’alimentazione umana subiva questa importante modifica territoriale.
In verità le persone abbienti ed i bar alla moda per ricchi ed annoiati borghesi hanno il ghiaccio da alcuni anni grazie a Federic Tudor, (foto dx) un geniale uomo d’affari di Boston.
Questi osservò i laghi ghiacciati a nord della sua città ed ebbe l’idea di trasportare il ghiaccio in blocchi con la sua nave nei luoghi dove poteva essere venduto con profitto.
Nel 1808 fa il primo tentativo, in inverno mette i suoi uomini a segare la superficie ghiacciata del lago, ne fa dei parallelepipedi facilmente trasportabili che isola nella stiva della sua nave con paglia e teli.
Il carico parte ed arriva con successo in Martinica. E’ la chiave di volta del mondo della miscelazione e della conservazione delle caraffe di cocktail. Nel 1833 il viaggio è da record, una sfida che il mercante inglese vuole vincere dopo i “vicini” Caraibi e l’Europa.
Il 13 settembre 1833 dopo 4 mesi di navigazione la Tuscany, nave da trasporto di Tudor, partita con 180 tonnellate di ghiaccio da Boston, arriva a Calcutta con 100. La gente segue l’evento dello sbarco con gli occhi di chi vede un miracolo. I cristalli ghiacciati vengono sbarcati e venduti con successo e profitto agli uomini d’affari indiani che sanno che una bibita fresca potrà essere venduta al quadruplo di una calda o resa fresca dal ghiaccio sporco, per uso esterno, proveniente dai pochi nevai all’interno dell’India.
I cristalli dell’americano sono puri perchè ottenuti da laghi e fiumi ghiacciati, quindi utilizzabili all’interno della bibita.
Nel 1851 brevetta un fabbricatore di ghiaccio, che però non vide mai un applicazione commerciale.
Dopo vari brevetti, a cura di altri ricercatori, si arriva al 1866, quando Thaddeus Lowe, (foto sx) inventa e produce commercialmente la prima macchina del ghiaccio, che sarà venduta a Dallas, in Texas, stato americano notoriamente molto caldo.
Lowe sfrutta semplicemente i suoi studi sui raffreddamenti dei gas che ha sviluppato durante la guerra civile, quando crea il pallone aerostatico “Intrepid” usato per l’osservazione delle truppe dall’alto.
Nasce la moda di bere alcolici su ghiaccio e i primi cocktails detti “on the rocks”.
I prezzi accessibili del ghiaccio diffondono la moda a livello capillare.
Nasce lo shaker per raffreddare, con rapidi gesti, una miscela di alcolici e la moda di costruire direttamente nel bicchiere il drink, con bottiglie o caraffe non refrigerate. I drink cosidetti “bowl”, larghi contenitori in vetro, da dove tutti attingevano con un mestolo, cadono nell’oblio.
Nei primi del 900 la fabbricazione del ghiaccio si diffonde ed arriva anche nel Vecchio Continente, dove nascono Americano e Negroni, i primi “on the rocks” italiani.
Un altro ingrediente fondamentale fu la soda, che rendeva i drink ancora più bevibili, grazie al leggero pizzicore che lasciava in bocca.
I sifoni per la soda divennero comuni a partire dall’inizio del 900, mentre già sul finire del 1800, la Hiram Codd di Londra, brevettò una bottiglia per contenere liquidi gasati.
I primi tentativi per la fabbricazione dell’acqua gasata vanno comunque attribuiti a Joseph Priestley, un inglese, che già nel 1767, scoprì il modo di aggiungere anidride carbonica all’acqua, mentre la prima azienda europea in assoluto è la Schweppes, fondata nel 1792 a Londra da un immigrato svizzero tedesco che fece tesoro degli studi di Priestley. Mentre i meriti per la fabbricazione di soda, come noi oggi la conosciamo vanno a Anyos Jedlik, uno scienziato ungherese, che fondò una fabbrica di acque gasate a Budapest.
Ai primi del 1900 si assistette alla crociata contro l’alcolismo in tutta Europa: i decessi per cirrosi superarono di gran lunga la soglia di guardia e lo stato sociale fu messo in pericolo. Aumentarono i delitti di sangue e i reati dovuti all’assunzione di alcol, pertanto per calmierare la situazione si procedette alla privatizzazione delle aziende di distillati in alcune nazioni e alla messa al bando dell’assenzio, che scomparve da tutti i ricettari dei cocktail. Solo alcune nazioni, come Spagna e Gran Bretagna, mantenettero la produzione dell’assenzio e permisero ancora il suo consumo.
Questa messa al bando determinò anche una variazione gusto-olfattiva di decine di cocktail, infatti i liquori che avevano fra gli ingredienti questo botanico, i bitter e i vermouth in primis, cambiarono profilo organolettico, mentre si assistette all’uso maggiore da parte dei barman di aromatizzanti a base di frutta. Con la fine dell’assenzio scomparve anche una sorta di “signature” dei drink, infatti prima del Proibizionismo era usanza comune di molti bar tender affermati aggiungere sempre alcune gocce di questo liquore, per caratterizzare i cocktail. Questa “firma” era apposta anche ai drink più conosciuti come Manhattan, Martinez ed Old Fashioned dove questo ingrediente non era assolutamente previsto. Senza assenzio si assistette ad una nuova declinazione del gusto corrente, le gradazioni alcoliche calarono sensibilmente, nacquero cocktail dolci e più femminili. I principali aromatizzati utilizzati divennero ciliegia e scorze di arancia amare, provenienti dalle colonie del Centro America caraibico.
Molti storici della miscelazione e del bar a torto dimenticano, parlando solo di Tiki-Era o Proibizionismo, questa importante parentesi della nostra storia di inizio 900.
I primi passi del movimento si mossero proprio all’interno dei caffè milanesi, sancendo ancora una volta, l’indissolubile legame fra cultura e questo luogo di ritrovo fondamentale. A Milano, il piccolo “Caffè Centro” e il prestigioso “Savini” accolgono le prime animate discussioni del giovane gruppo di artisti di cui fanno parte Carlo Carrà, Luigi Russolo e Umberto Boccioni. Zuffe e clamori accompagnano la stesura nei primi anni del 900, del Manifesto tecnico della pittura futurista, la prima disciplina artistica a venir presa in esame. All’interno del “Caffè Campari” e del “Cova” si elaborano le prime strategie di rissosa propaganda.
Epiche scazzottate si segnalano nelle cronache dell’epoca nella terza sala del “Caffè Aragno” di Roma, e a Firenze, all’interno del “Paszkowski” e del “Giubbe Rosse”, dove si può ancora ammirare un’opera di Depero.
All’interno di questi caffè Marinetti gridò i suoi proclami di rottura con il passato che ebbero l’effetto di incendiare gli animi degli aderenti al movimento, ed affermò che “Si pensa, si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia” facendo suo il motto del filosofo tedesco Feuerbach e di Brillat-Savarin, che scrisse che il destino delle nazioni dipende dal modo in cui esse si nutrono.
Se si fosse interessati ad approfondire l’argomento nel paragrafo dedicato alla “storia del bar” del sito sono trascritte due poesie futuriste, dove si possono trarre interessanti conclusioni sul servizio e i prodotti dell’epoca.
Il Movimento Futurista, mosso da ambizioni globali, fu la prima ed unica avanguardia artistica italiana a contaminare profondamente il pensiero creativo europeo in ambito artistico e culturale, e fu l’unico a prendere in considerazione il mondo convenzionale e statico della miscelazione e della cucina di allora. Non accettare supinamente le regole ed il sapere del passato fu uno dei principali dogmi del Futurismo che rinnegò il passato, stravolse e cambiò le regole dell’arte, della musica, della moda, trasferendo lo stesso impeto innovatore nella miscelazione con drink provocatori, spesso, ad onor del vero, imbevibili. Al tempo stesso anche la cucina si caratterizzò per gli abbinamenti azzardati e per l’estrema cura data alla presentazione del piatto, aspetti che, anni più tardi riletti opportunamente, daranno vita alla Nouvelle Cousine.
La principale bizzarria dei futuristi fu la dichiarazione di guerra al piatto nazionale italiano: la Pastasciutta, considerato un cibo disdicevole, voluminoso, che portava sonnolenza e fiacchezza durante la sua digestione difficoltosa, esaltando, al contempo, l’italico riso che venne proposto in decine di appetitose varianti. La principale ragione di questa propaganda nasceva dalla dipendenza estera per l’approvvigionamento del grano, viste le sanzioni economiche nate all’indomani dell’aggressione coloniale italiana all’Etiopia. Il rinnovamento dei codici della cucina si completava con l’abolizione delle posate, per introdurre anche la sensazione tattile nella degustazione dei piatti. Molti di questi piatti si completavano anche con rumori, per fare in modo che la cucina potesse includere tutti i sensi cognitivi dell’uomo. L’obiettivo di Marinetti era di restituire all’uomo la ricchezza delle sensazioni e del godimento del piatto in tutta la sua completezza e ricchezza, abolendo il volume e la gozzoviglia, legata al solo nutrimento ed appagamento “animale” dello stomaco.
Il movimento futurista aprì anche un ristorante, “La taverna del Santopalato”, ribattezzata dagli aderenti al movimento “La Taverna d’alluminio”, che divenne, di fatto, l’applicazione e realizzazione pratica di queste idee.
La scelta della città non è del tutto casuale, infatti Torino si apprestò, dopo aver generato il Regno d’Italia, “ad essere la culla di un altro Risorgimento storico, quello gastronomico”.
Il ristorante vide la luce l’8 marzo 1931 a Torino, inaugurato da F.T. Marinetti in persona, con il cuoco luminare Angelo Giachino ai fornelli, coadiuvato da Piccinelli e Borghese. La cena che ne seguì fu una singolare sfida culinaria fra i due professionisti e l’aeropittore Fillia e il critico d’arte P.A. Saladin.
Angelo Giachino fu il titolare di questo locale che ebbe vita breve, poichè la cucina proposta, nell’intenzioni nata come nazional-popolare, in realtà era provocatoria, sovversiva, elitaria, di difficile realizzazione ed interpretazione. I piatti proposti non erano creati per essere mangiati, ma per essere visti come opere d’arte globali, a dimostrazione di ciò, un critico culinario dell’epoca, presente ad uno dei primi banchetti futuristi, consigliò di sedersi a tavola senza avere appetito…Piatti dolci-salati, semicrudi dalle rapide cotture, regolate come “un motore di un idrovolante per alte velocità”, dalla sequenza disordinata, (celebre il pranzo al contrario partendo da caffè e dolce), da gustare in rapida sequenza, condito da sollecitazioni visive e auditive, si scontrò nettamente con la concezione storica secolare dell’alimentazione italiana, fatta di cotture medio lunghe, cura degli abbinamenti e rilassata convivialità.
Le polibibite alcoliche ed autarchiche, completate da decorazioni fatte di cibi in contrapposizione con il gusto del liquido, dominate dall’ossimoro dolce-salato o dolce-piccante, non incontrarono il gusto di allora fatto di accostamenti lineari, dolce-amaro.
Il Santopalato non sarà l’unico locale aperto dal movimento, prima di questo videro la luce a Roma il “Teatro sperimentale degli Indipendenti” in via Avignonesi, dove l’architetto futurista Virgilio Marchi ristrutturò il bar con pannelli dipinti da Ivo Pannaggi.
Nel 1921 aprì il “Bal tic tac” decorato da Giacomo Balla e poco dopo il “Cabaret del Diavolo” situato nelle cantine dell’Hotel Elite di via Basilicata. Qui Fortunato Depero disegna grandi immagini murali ed arredi per tre grosse sale, denominate Paradiso, Purgatorio ed Inferno. Diavoli, anime redente ed angeli, creano un ambiente di grande suggestione scenografica, il cui motto, posto all’ingresso del locale è “Gaudeo ergo sum”. Le consumazioni proposte sono in linea con il locale: “Melma bruna”, “Fuoco liquido” ed “Infuso sintetico digrignatorio” sono consumati ai tavoli dove si siedono gli Indivolati fra cui si conta anche il poeta romano Trilussa.
Il momento più alto per le ambizioni globali futuriste fu l’ “Esposizione Coloniale di Parigi” dell’estate del 1931, qui l’architetto futurista Guido Fiorini, inventore della tenso-struttura, disegnò un magnifico padiglione battezzato “Italia”, all’interno del quale si svolse un faraonico banchetto interamente realizzato con piatti inventati dagli aderenti al movimento che avevano il preciso compito di eliminare gli stereotipi della cucina italiana.
Il ristorante fu decorato con pannelli realizzati da E. Prampolini e le polibibite “Grandi acque” e “Giostra d’alcol” fecero da aperitivo, dopo di che le portate si susseguirono accompagnate da profumi spruzzati dai camerieri sulle nuche dei commensali. Il banchetto era corredato da rumori e luci che completavano le percezioni sensoriali dei commensali.
Balletti e canti si susseguirono “Come un uragano tropicale” scrive Marinetti, ma la vera sorpresa fu lo spettacolo di Josephine Baker, icona erotica degli anni 30, che fece la sua apparizione in sala ipnotizzando i commensali. Marinetti proseguì la cronaca del banchetto affermando: “Le sue gambe mondialmente celebri erano lunghi pennelli africani che avevano forse servito a Prampolini a dipingere i suoi pannelli”.
Proprio il pittore realizzerà in seguito un ritratto della ballerina che per i futuristi fu un esempio di bellezza antiretorica, dinamica, che unì erotismo e modernità, insieme alla voglia di esotismo che fu seguente alle imprese coloniali.
Il movimento di inizio secolo, fondato nel 1909 da Filippo Tommaso Marinetti con il suo Manifesto Futurista, pubblicato dal giornale francese “Le Figaro”, perse successivamente la sua spinta innovatrice e provocatrice e finì per essere assimilato al periodo seguente, conosciuto come il ventennio fascista. La maggioranza degli aderenti al movimento Futurista fuoriuscì dal partito fascista non appena furono chiari i suoi propositi reazionari, di restaurazione storica e borghese. Il legame con il fascismo rimarrà per molti artisti aderenti al movimento, in quanto, essendo al potere nel periodo, assicurerà i finanziamenti necessari al proseguimento dell’opera di pittori ed architetti. Uno di questi, Fortunato Depero, alla fine della guerra dichiarerà che lui, come tutti d’altra parte, “Aveva bisogno di mangiare”…
Tornando al discorso relativo al mondo del bere, lasciando ad altri le riletture in chiave politica del movimento, il Futurismo, cambiò i nomi degli strumenti e dei protagonisti della miscelazione, in nome di un forte sentimento nazionazistico, molto sentito ad inizio secolo da tutte le realtà europee e non solo, che porteranno anche all’isolazionismo Americano.
Lo shaker divenne “l’Agitatore”, il barman “il Miscelatore”, il cocktail “La Polibibita”, il bar “il Quisibeve”, il menù “il catalogo o lista vivande”, il maitre “Il Guidapalato”, il brandy “Arzente” e il whisky, “Spirito d’avena”.
Le miscele divennero autarchiche, ed utilizzarono come basi alcoliche grappa ed arzente, e come aromatizzanti rabarbaro, genziane, assenzi, rosoli, ma soprattutto vini e vermouth della tradizione italiana.
Cosa molto interessante fu l’uso delle spezie come decorazione “attiva” aromatizzante e di infusioni alcoliche di fiori e frutta esotica autoprodotte, come la rosa damascena e l’ananas.
Concetti ripresi decenni più tardi dai mixologist di tutto il mondo, ma che ebbe nei Futuristi i primi precursori, infatti già nel 1930 abbiamo delle polibibite con timo, cumino e rosmarino, tipiche erbe della tradizione culinaria, poste in infusione in alcol.
Per la frutta abbiamo liquori a base di ananas e datteri, prodotti considerati italiani, per via del neonato impero coloniale a sancire il successo dell’Italia e della sua politica espansionistica.
La scelta dell’autoproduzione fu in parte dettata dall’embargo commerciale con cui fu sanzionata l’Italia all’indomani dell’aggressione all’Etiopia.
Improvvisamente l’Italia fu estromessa dai commerci e i miscelatori futuristi dovettero sopperire alla mancanza di aromatizzanti e liquori d’importazione, con produzioni proprie o con l’uso di distillati tipici della tradizione italiana.
Al movimento dobbiamo anche la creazione di nuove categorie di miscele: “permangiare” (antipasti ed aperitivo), “perlazarsi” (dessert e dopo cena), “Guerrainletto” dal forte apporto energetico, allo scopo, come sottolinea Marinetti, di fecondare e creare la nuova razza italiana. Suo contrapposto le polibibite “Paceinletto” vere bombe alcoliche con infusioni d’erbe, in grado di stimolare il sonno ristoratore e i “Prestoinletto”, adatti alle fredde notti invernali. Infine gli “Snebbianti” forti corroboranti in grado di far prendere decisioni strategiche e fondamentali, liberando il campo, grazie alla dotazione alcolica, da morali, dubbi e tentennamenti e le “Inventine”, polibibite fresche, inebrianti in grado di stuzzicare la mente, per avere idee fulminanti.
Le ricette futuriste non riportarono mai le dosi esatte espresse in centilitri e raramente vennero espresse in frazioni di prodotto, mentre di alcune non sapremo mai la ricetta. “Quisibeve rose e fiori” e “Polibibita sanatrice” sono citate sulla lista vivande di un banchetto svoltosi alla Galleria Pesaro di Milano nel giugno del 1933, di cui però non viene riportata la ricetta e di cui non vi è traccia sul libro di Marinetti, “La cucina Futurista” dato alle stampe l’anno prima, nel 1932.
Non ci fu mai un illustrazione del bicchiere da utilizzare (unici due casi il “Brucio in Bocca” di Barosi, che schematizza una coppa cocktail per spiegare la sequenza di strati del suo Puosse Cafè e la “Coppa di Brividi” di Fortunato Depero che disegna ingredienti e bicchiere).
La ragione è semplice, trattandosi di un movimento artistico di ispirazione anarchica e dissacratoria delle regole, i futuristi volevano solo dettare gli abbinamenti di gusto e non le dosi ferree, lasciando la fantasia del miscelatore al potere. In tal senso Marinetti afferma : “Ogni errore di dosaggio, potrà dar vita ogni volta ad una ricetta diversa”… l’esatto contrario della volontà espressa dalla codifica Iba…
Un pittore futurista, Enrico Prampolini, propone una polibibita chiamata “Grandiacque” con uguali quantità di liquore al cumino, anice, ginepro e grappa, mentre Alcide Saladin, un critico d’arte miscela in pari quantità liquore di rose, infusione alcolica di ananas e timo, nella polibibita “Piumenoperdiviso”.
Ai futuristi dobbiamo anche gli unici esempi di cocktail con il vino considerato da mensa, ricordiamo la “Giostra d’alcol”, a base Barbera d’Asti e il “Decisone” con Barolo, vino chinato, mandarino e rhum.
Il rhum, nella grafia francese nelle ricette futuriste, per via della permanenza parigina di Marinetti, viene considerato, per via delle conquiste in Africa, un genere coloniale, alla stregua di ananas, banane e spezie dolci.
Unica concessione ad un distillato straniero si ha nel “Brucio in Bocca ” creato dall’ingegner Barosi, che vede l’utilizzo del wisky, rigorosamente scritto senza “h”.
L'”Inventina”, con il Moscato d’Asti, rimane l’unico esempio di cocktail “in divenire” prevedendo al suo interno cubetti di succo di arancia rossa gelata, che sciogliendosi cambiavano colore e gusto al drink.
Un omaggio al cambiamento e alla velocità che vedeva l’utilizzo anche di un liquore ricavato per infusione dall’ananas fresco.
Queste miscele azzardate sono un complimento al vino, tanto che Marinetti cita : “Eleganti signore italiane, vi preghiamo di sostituire al Cocktail Party dei convegni pomeridiani che potrete chiamare a volontà l’Asti spumante della signora B, il Barbaresco della contessa C o il Capri Bianco della principessa D. In questi convegni sarà premiata la miglior qualità del vino radunatore”.
Tutte queste polibibite sono citate in fondo al capitolo, al termine della lista dei cocktail internazionali.
Ai futuristi dobbiamo anche la creazione delle pubblicità e delle etichette più innovative di inizio secolo, da cui scaturì uno dei maggiori sodalizi commerciali con il più famoso prodotto italiano da aperitivo, il Campari, utilizzato in alcuni cocktail originali, tra cui ricordiamo il “Rosabianca” con arancio, infusione di rose bianche e anice, creato da Giachino, per l’inaugurazione del ristorante il Santopalato.
Fortunato Depero, affermato pubblicitario dell’epoca, che si unì al movimento futurista, disegnò nel 1931 la famosa bottiglietta a tronco di cono del Campari Soda. Questa opera fu il coronamento di un decennale rapporto di collaborazione che vide decine di pubblicità e disegni.
La bottiglietta fu un innovativa idea per il mercato dell’epoca che vide per la prima volta commercializzato nella forma “ready to drink”, quindi realizzato nelle dosi giuste, volute dall’Azienda, uno dei “cocktail” maggiormente in voga all’epoca: il Campari con il selz.
La collaborazione con Campari ebbe inizio poco dopo il 1926, quando fu esposto alla Biennale di Venezia, il famoso quadro “Squisito al Selz” (foto sx), che era un indiretto omaggio al Commendator Campari ed al suo aperitivo. Questa collaborazione si concretizzò nella realizzazione nel 1930 del “Numero unico futurista Campari 1931”, un volumetto con quadri, disegni, liriche, pubblicità plastica e decorativa atte a illustrare e glorificare il Cordial ed il Bitter Campari.
Anche Nikolay Dugerhoff, altro eminente membro del Futurismo, disegnerà molti cartelloni per la Campari e per la Cora, famosa azienda torinese di vermouth, leader assoluta del periodo e prima ad esportare in America.
I suoi prodotti saranno gli unici, insieme ai vini Costa, ad essere presenti all’inaugurazione del Santo Palato.
Un altro contributo alla grafica pubblicitaria verrà anche dal torinese Ugo Pozzo, fondatore del movimento futurista nella città sabauda, insieme a Fillia, al secolo Luigi Colombo, con i suoi bellissimi pannelli disegnati nel 1930 per reclamizzare i vini e la birra italiani.(foto in alto a dx). Fu definito da Marinetti “Un ingegnoso mondializzatore di Torino”, ma che per il suo carattere schivo e modesto rimarrà nell’ombra del movimento, nonostante le indubbie qualità artistiche.
Ricordo ancora che per una completa visione delle ricette e della storia delle polibibite futuriste, bisogna scorrere interamente il capitolo, al fondo dopo la miscelazione codificata internazionale.
Seguendo la strada europea, l’America proclama il Proibizionismo nel 1919, il divieto totale di consumo e produzione di alcol, tale scelta segue anche una svolta politica, decisa lo stesso anno, ovvero la fuori uscita degli Stati Uniti dalla Società per le Nazioni, l’organismo precursore dell’ONU.
L’isolazionismo americano provocò limiti all’immigrazione, all’importazione di prodotti alcolici dall’estero e sancì la nascita dei prodotti di contrabbando, la cui produzione e commercializzazione è in mano alle bande di gangsters, fra cui spicca quella di Al Capone. In tale situazione si vede accrescere il consumo di gin, spesso di pessima qualità, per la sua maggior facilità di vendita e produzione, non necessitando dei lunghi invecchiamenti prima del consumo, come nel caso del Bourbon.
I cocktail a base gin spopolano, il whisky rimane un prodotto, per così dire elitario e si assiste alla nascita dei drink a base rum, distillato della vicina Cuba, agevolmente contrabbandato notte tempo dalla vicina Florida. Nei locali si serve spesso il “moonshine”, tecnicamente un “whisky” bianco o se vogliamo una vodka poco raffinata, ottenuta dalla distillazione notturna al riparo da occhi indiscreti, di segale e mais, senza nessun tipo di invecchiamento, che viene miscelato a acqua, zucchero e limone, per smorzarne il carattere e celarne la presenza.
I locali simbolo di questo periodo sono gli “Speakeasy”, luoghi quasi segreti, il cui accesso era vincolato alla conoscenza di una parola d’ordine. Il termine pare nasca dal fatto che l’ordinazione di drink alcolici doveva avvenire senza destare sospetti, quindi “parlando facile”. A questi bar spesso si accedeva attraverso porte segrete situate in altri esercizi, spesso alimentari, controllati dalla mafia che monopolizzava questo mercato.
Per aggirare le leggi spesso questi locali offrivano un’ attrazione esotica, molto spesso una tigre imbalsamata, per giustificare la presenza dei clienti all’interno del locale. In caso di irruzione della polizia, la giustificazione del titolare era che in realtà i clienti erano presenti solo per ammirare il trofeo, i quali ottenevano come complemento, incluso nel biglietto della visita, un drink.
Gli speakeasy divennero quindi conosciuti anche come “Blind Tiger”, locali di una certa levatura, dove poter mangiare e seguire anche degli spettacoli, dove spesso l’ingresso era vincolato ad un dresscode che prevedeva giacca e cravatta per gli uomini ed abito da sera per le donne.
Mostrando un buon senso dell’umorismo, i locali di infimo lignaggio, furono battezzati “Blind Pig” ovvero il “Maiale Cieco”, qui si potevano consumare alcolici, senza però avere il servizio di classe e l’offerta degli spettacoli degli speakeasy.
Come conseguenza del blocco della produzione il whiskey scompare come ingrediente nei drink in Europa, funestata, nel quinquennio precedente dalla Grande Guerra, gli ingredienti dei cocktails del periodo sono i distillati e gli aromatizzanti tipici delle nazioni in guerra, Gin, Cognac, Cointreau e Cherry Brandy come ad indicare la fratellanza fra Inglesi e Francesi, uniti contro la Germania. Molte distillerie americane chiudono e non riapriranno mai più. Solo alcune riescono ad avere uno speciale permesso di produzione dalle autorità legato alla distillazione di whiskey e di alcool, per uso medico. Infatti molti bitter curativi o tinture erano ancora necessariamente preparati in infusione alcolica.
L’Europa, cosi come la vicina Cuba, furono meta di gite alcoliche di molti americani che desideravano bere senza l’incubo della polizia. In Europa, alla fine della Prima Guerra Mondiale, molti hotel dovranno aprire un bar, in alcuni casi due come il Ritz Hotel di Parigi, per soddisfare le richieste dei molti turisti che si recavano nella capitale francese per ammirarne le bellezze architettoniche e bere ottimo Cognac. Anche alcuni barman americani affermati presero la via dell’Europa e dei caraibi, fra questi Frank Meyer, che viene ricordato come l’inventore del cocktail Sidecar, che emigrò dall’America nel 1921 ed aprì nel 1922 il Petit Bar proprio al Ritz di Parigi.
Nel 1929 abbiamo la Grande Crisi, con il crollo di Wall Street nel venerdi nero della storia americana che determinerà il fallimento di molte aziende e la scomparsa di decine di distillatori, provati dal lungo embargo.
Nel 1933 il Proibizionismo decadde, questa scelta coincise nuovamente con la svolta politica del New Deal promossa e voluta da Roosvelt che capì l’importanza del libero mercato e che sancì il ritorno degli Stati Uniti nella Società per le Nazioni.
Con la fine del Proibizionismo, assistiamo alla nascita della Tiki Era, la moda americana di aprire locali con ambientazioni esotiche a ricreare una spiaggia con tanto di stelle marine seccate, conchiglie e sedute larghe e comode di midollino intrecciato. Il successo di questo format è da ricercare nel fatto che gli americani durante il periodo proibizionista si recavano, in massa, durante i periodi di vacanza, nei paesi esotici per eludere il divieto al consumo di alcolici, per potersi gustare in santa pace un drink, senza la paura di irruzioni della polizia o sparatorie.
Gli importanti attori di questa periodo sono due: Ernest Raymond Beaumont e Vic Bergeron. Il primo cambiò nome in Donn Beach e fu, di fatto, l’ inventore di questa moda, quando aprì il suo locale a Los Angeles, più precisamente ad Hollywood, nel 1930, chiamandolo “Donn the Beachcomber”.
Qui creerà alcuni dei più famosi cocktail a base rum della storia della miscelazione, note al pubblico come le “Rapsodie del rum”. Il secondo soprannominato Vic the Trader, per via della sua attività di importatore, arriverà anni più tardi, precisamente nel 1944 quando aprirà il suo Tiki Bar, il “Trader Vic” all’interno del Westling Hotel a Seattle.
Questo fu il primo di una lunga serie di locali aperti da Victor Bergeron, il sogno americano in persona, se si pensa che fino a pochi anni prima, era proprietario di un semplice negozio di alimentari dei genitori e di un piccolo ristorante chiamato Hinky Dink’s…
Entrambi ebbero molto successo e lanciarono cocktail e stili di bevande che si affermarono presso la clientela. A tal proposito, cito una gustosa curiosità . Nel 1978 il geniale ed incompreso cantautore umoristico Warren Zevon, al secolo Greg Ladanyi, scrive una canzone demenziale ed umoristica “Werewolves of London” (Lupi Mannari di Londra) citando il Trader Vic con la strofa “Ho visto un lupo mannaro bere una Pina Colada al Trader Vic, i suoi capelli erano perfetti!”. La canzone, inizialmente non capita, verrà rivalutata in seguito, come il genio del cantautore, forse troppo avanti per i suoi tempi.
Tornando alla cultura del bere in questo periodo, il distillato di riferimento è il rum, di diversi invecchiamenti, miscelato insieme nel medesimo cocktail, con aggiunta di aromatizzanti alcolici e succhi.
La qualità del rum è in generale ottima, ci sono centinaia di distillerie caraibiche che lo producono e le liste con la scelta del distillato nei bar sono lunghe e ricche di chicche, ormai scomparse ai giorni nostri.
Il drink simbolo del Beachcomber è lo Zombie, mentre il Trader Vic risponde con il Mai Tai e lo Scorpion, codificati nei libri che lo stesso Trader pubblica con molto successo.
La moda della Tiki Era si prolunga fino alla fine degli anni 50, grazie anche alla terribile parentesi della Seconda Guerra Mondiale, infatti le truppe impegnate nella guerra contro il Giappone nel Pacifico, trascorrono le brevi licenze premio dal fronte, nei bar esotici tipici di questi luoghi e, una volta ritornati in patria, gradiscono tale ambientazione.
La fine della Seconda Guerra Mondiale determina la successiva nascita della Guerra Fredda, con il regime comunista russo, a fronteggiare minacciosamente l’America.
Durante questo periodo ci sarà l’exploit del consumo di vodka, vera novità del mercato moderno e si assisterà alla conseguente nascita di decine di drink con tale ingrediente, prima riconosciuto soltanto come prodotto povero, ad appannaggio della sola classe operaia russa e quindi con implicazioni di consumo ad alta valenza politica, pregiudizi che decadranno solo con il tempo.
Il drink simbolo di questo periodo è il vodka Martini , seguito dal Moscow Mule, un mix di vodka e ginger beer, una bevanda sodata piccante a base di zenzero, che, fino ad allora, aveva riscosso ben poco successo.
La fine delle tensioni internazionali e la conseguente innovazione tecnologica del trasporto aereo in grado di abbassare tempi e cost dei viaggi, renderanno possibile la nascita del turismo di massa, specie nelle aree tropicali calde, a la scoperta di “nuovi” distillati e stili di consumo, che sanciranno il successo di Tequila e la Cachaca, prima di allora sconosciute.
Le seguenti ricette in fondo al paragrafo sono tutte espresse in centilitri, come indicava la vecchia scuola italiana, evitando frazioni e once, che rendono la vita difficile al barman neofita o a chi si voglia dilettare nell’arte della miscelazione per conoscenti e amici.
La suddivisione in frazioni rende necessaria la conoscenza del bicchiere di servizio e della sua capienza, mentre la scuola americana con le once e le sue frazioni, mette a dura prova le nostre conoscenza matematiche.
Tutto diventa più facile se sappiamo che un oncia, indicata con la sigla “Oz” è pari a 3 cl, pertanto, se se leggiamo un oncia e mezzo, vuol dire che dobbiamo versare 4,5 centilitri.
Mezza oncia sono 1,5 centilitri, mentre 3/4 di oncia sono circa 2,25 centilitri e così via.
Per aiutare il barman novello in questa difficile arte, esiste il “Jigger” simpatico bicchierino dosatore in acciaio, fatto con due tronchi di cono incollati, della capacità di 4,5 cl e 2 cl che danno a tutti la possibilità di fare un drink preciso.
Con un buon allenamento, ovvero riempiendo bicchierini d’acqua, per poi versarli nel jigger, per verificarne la precisione, si arriverà ad avere “il polso tarato” in modo da poter lavorare a “mano libera”. In caso contrario si continuerà a lavorare componendo le ricette con l’aiuto del jigger, cosa assolutamente normale anche per i barman esperti alle prese con clienti esigenti.
Tornando alla scuola tradizionale, quella italiana, con misure a noi comuni, si tenga conto che se la somma totale del drink è di 6/7 centilitri, si usa definirlo “short drink” ovvero “bibita corta”. La sua collocazione può essere sia “pre dinner” cioè “aperitivo” sia “after dinner” come digestivo da meditazione.
Il bicchiere è la coppa Martini, che va sempre raffreddata prima del suo utilizzo con ghiaccio a cubi e soda, oppure in frigo, se siete barman dotati al banco di questo elegante servizio.
La preparazione del drink è di due tipi, la prima si dice “shake and strain”, tradotto in “agitato e scolato” in coppa, oppure “mix and strain” ovvero “mescolato e scolato” sempre nel medesimo bicchiere. La prima operazione si svolge con lo shaker, la seconda con il mixing glass, una sorta di grossa pinta con un comodo beccuccio per meglio versare il contenuto.
La spiegazione di questi due procedimenti è semplicemente la necessità di ossigenazione degli ingredienti, che possono essere più o meno delicati.
Qui entra in gioco la sensibilità del barman autore della ricetta, tenendo presente la macro regola (che si contravviene in alcuni casi, il più eclatante il Vesper Martini) che i vermouth e i fortificati, in quanto vini non si agitano mai, a meno che non vi siano succhi di frutta insieme.
Nella drink list a seguire, per dare le indicazioni di costruzione del mix, i “Shake & Strain” verranno indicati con S&S, mentre i secondi con M&S.
Se siamo sui 10 cl. totali della ricetta, il bicchiere di riferimento è il tumbler basso, sempre riempito con ghiaccio a cubi cristallino.
I drink di questa categoria sono chiamati “Medium Drink” e normalmente sono eseguiti direttamente nel bicchiere, versando gli ingredienti mescolandoli successivamente con un cucchiaio lungo da barman detto “stirrer”.
Questi drink si chiamano anche “Build” cioè “costruiti”, poichè si compongono direttamente nel bicchiere.
Alcuni di questi sono shakerati e poi versati nel bicchiere, dove però il ghiaccio , non deve essere quello utilizzato nello shaker, spezzettato e brutto a vedersi, ma a cubi “nuovi”, per dare un aspetto migliore al drink.
Regola che può venire contravvenuta, nel momento in cui il barman si trovi in un attimo di lavoro pressante o a seconda del locale dove si opera. In discoteche e locali commerciali si tende ad utilizzare lo stesso bicchiere, sia come glass dello shaker Boston, sia come bicchiere di servizio, per velocizzare il servizio.
Appartenenti alla classe dei build ci sono anche i “Muddle” ovvero “Pestati” dove la preparazione degli alcolici nel bicchiere, viene preceduta dalla pestata che si da a spicchi di lime, eventuale frutta prevista in ricetta e zucchero di canna.
Il ghiaccio in questi drink è normalmente spezzettato o pilè, anche se a mio giudizio tende a sciogliersi troppo in fretta, annacquando il cocktail. Il consiglio è di mischiare cubi interi e pilè per aumentare la tenuta termica del ghiaccio.
Questi drink nella drink list successiva saranno indicati con la semplice B di build, mentre nel caso del pestato avremo la M di muddle.
Se ci troviamo di fronte ad una somma di 18/20 centilitri abbiamo un long drink che andrà servito in tumbler alto o Highball.
Questi drink si chiamano “Long Drink” o “Dissetanti”, vista la quantità di liquido servita e sono tendenzialmente poco alcolici e fruttati per dare facilità di beva al cliente assetato.
In qualunque caso, sia se build o shakerati, vale sempre la regola che il ghiaccio nel bicchiere che dovrà essere sempre fresco e cristallino.
Questi drink oltre che shakerati, spesso si frullano, sopratutto se nella ricetta è prevista frutta fresca o particolari texture di servizio, come i drink con presenza di gelato, detti Puff.
Nella seguente drink list saranno indicati con LD seguita dall’indicazione di costruzione, quindi S per shake, B per build e F per frullato.
Sempre frullati, ma in appositi blender tritaghiaccio ci sono i drink detti Frozen, ovvero dalla consistenza cremosa di una granita siciliana. Sono cocktail di scuola americana, normalmente declinazioni fruttate, fragola o banana, di cocktail famosi come il Daiquiri e il Margarita e sono serviti in doppia coppa cocktail o nel classico bicchiere detto sombrero.